Lopera di Stefano Veratti si inserisce in quel circuito dellarte legato alla fotografia "pura", che vede nella scoperta della poesia del quotidiano il suo maggior risultato. Locchio dellartista, infatti, si sofferma su particolari apparentemente irrilevanti, che tutti vediamo, ma mai guardiamo nello loro valenza estetica: unombra, un riflesso, una trasparenza, una crepa sul muro, una striscia dasfalto colorata. Poi, grazie a sapienti inquadrature ed a raffinatissimi equilibri cromatici, quasi magicamente si scoprono nuovi pensieri per questi oggetti: lombra diventa un profilo umano, la crepa un volto, il riflesso di una vetrina una composizione astratta ricca di suggestioni e di rimandi emotivi.
Stefano Veratti, insomma, sembra avere il dono speciale di "sublimare" il reale, recuperandone quella parte poetica che la nostra disattenzione e fretta ci impediscono di notare. La straordinaria potenza emotiva e concettuale delle sue opere è ancora maggiore se si pensa che la tecnologia usata per realizzarle è, per così dire, "primitiva". Lartista, infatti, non si serve di una macchina digitale, né di particolari accorgimenti in fase di sviluppo e stampa: quello che le sue opere ci mostrano è il frutto di tre semplici gesti realizzati, nel giro di pochi secondi, con una macchina fotografica manuale, due obbiettivi a disposizione (20 mm e 55 mm macro) ed una semplice pellicola da 50 ASA per diapositive: osservazione/inquadratura/scatto. Egli stesso non conosce i risultati del suo lavoro se non quando ritira lo sviluppo delle foto.
Pensando a questo semplice modus operandi risulta ancora più strabiliante la "struttura compositiva" delle sue opere. Le sue fotografie, infatti, riflettono la ricerca di una sostanziale armonia interna che gioca principalmente su tre fattori: decontestualizzazione delloggetto di partenza, composizioni asimmetriche o simmetrie comunque insolite, esasperazioni cromatiche con accostamenti volutamente discordanti e spiazzanti. Tutto questo in uno scatto di qualche frazione di secondo!
Le opere di Stefano Veratti si legano, da un lato, alle cosiddette fotografie di "grado zero" alla Eugène Atget, quelle cioè che, pur dando lidea della macchina posta in modo casuale, sono in grado di epifanizzare la realtà, ma non mancano dallaltra, di rimandi "pittorici", tesi ad esaltare rapporti formali, materici o cromatici fra gli oggetti e le suggestioni proposte. Interessante è, infine, notare come la presenza umana sia spesso accennata, ma mai direttamente presentata. Lartista sembra maggiormente interessato alla "trasparenza" delluomo, piuttosto che alla sua effettiva presenza: le poche immagini che appaiono non sono altro che ombre o riflessi di persone distratte, forse troppo concentrate su se stesse per comprendere la semplice poesia del mondo che li circonda.
Attraverso le sue opere Stefano Veratti ci mostra un nuovo codice visivo in grado di alterare ed ampliare le normali nozioni di ciò che vale la pena guardare e osservare, e sembra volerci dire, come André Kertész: «La macchina fotografica è il mio strumento. Grazie ad essa do ragione a tutto ciò che mi circonda».
(Matelda Buscaroli)